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Contenuto: Conosco Federico Pirani da molti anni: da quando eravamo dei ragazzi. Da sempre ricordo il suo fare gentile, il suo eloquio appropriato, la curiosità appuntita e prensile. Appassionato pianista, è sempre stato un cultore di musica raffinato e minuzioso. Ha indagato con acume filologico sul giovane Mozart, ma è altrettanto fine esecutore che studioso. La sua casa è lo specchio della sua personalità, dei suoi interessi e del suo gusto. Un grande pianoforte fronteggia una finestra dalla quale si scorgono bassorilievi romani incorniciati da stucchi borrominiani. Ogni dettaglio è improntato a una ricerca di gusto e di raffinatezza: dai tessuti antichi o solo vecchi, sovrapposti a incrociare colori e disegni, alle mattonelle antiche, accostate con attenzione a frammenti di antichità, di pietra o di legno.
Quando qualche tempo fa mi invitò a casa sua, mi sarei aspettato di ascoltare un brano di Rameau, piuttosto che un preludio di Debussy. Invece grande fu la sorpresa quando da una spessa cartella cominciò a estrarre una serie di acquerelli, che posava qua e là su un divano con delicatezza da pianista. Ho fatto questa premessa perché dentro quegli acquerelli si distingueva esattamente tutto il suo mondo: le tessiture di colori come di stoffe, gli accordi di angoli e di linee come di note su uno strumento musicale, i frammenti spezzati e ricomposti di un'antichità perduta. Può sembrare ovvio che nell'opera di un artista compaia tutto il suo mondo, ma veramente non è cosí scontato.
Federico da qualche tempo dipingeva, in silenzio, ma con la pervicacia e l'applicazione che si dedica a un brano di pianoforte. I soggetti erano soprattutto romani, di una Roma vista attraverso una lente di sogno e di letteratura che da secoli appassiona e cattura gli uomini di cultura. Non erano alieni da riferimenti, soprattutto tecnici: la bravura all'acquerello di Pedro Cano, con le sue deliquescenze, le sue umbratili sfumature, lo aveva evidentemente impressionato. Ma il mondo che ne sortiva era invero quello di un romantico viaggiatore dei secoli passati, che non sa bene distinguere tra realtà e fantasia. La gamma quasi monocroma degli acquerelli già pone chiara questa istanza: ciò che è rappresentato non è frutto della vista ma della visione, non della ragione ma dell'emozione. La scelta dei soggetti è suggerita da un'elettività interiore, non dal senso del pittoresco. Quando recentemente sono tornato per vedere le ultime opere, una serie derivata da Böcklin ha confermato la natura di tale scelta.
I ruderi romani sono identificati dall'idea del frammento, della visione, enfatizzati dalla monocromia e dalle accensioni innaturali dei tocchi di pennello. Azzurri o violacei, ocra o giallastri, rossi o verdigni, quei ruderi ci parlano in realtà dei sogni di Federico, del suo gusto diffuso con caparbia minuzia intorno a sé, persino nel vestire e nel parlare. La sua Roma è diventata una metafora interiore: troviamo il suo fantasma anche negli acquerelli dipinti in Giordania, in Tunisia o in Libia. Come fece dire la Yourcenar ad Adriano, «Rome n'est plus dans Rome, Rome est tout où je suis». Federico Pirani ha catturato quello spirito eterno della città, di cui sembra esser divenuto una medianica propaggine.
Fabio BenziMARE MARMOR
Negli acquerelli di Federico Pirani l'antica Roma rivive certo attraverso alcuni dei suoi monumenti. Sono architetture della capitale, come l'arco di Tito, la tomba di Cecilia Metella, la basilica di Massenzio; dei centri vicini, come villa Adriana e il cosiddetto tempio della Sibilla a Tivoli; oppure delle lontane province, come il teatro di Sabratha e le tombe principesche di Petra. Ma l'antica Roma rivive anche in una dimensione più profonda e sottile: rievocata nella sua anima materiale, come se le singole pietre avessero una loro vita in dissolvenza e i colori una capacità di pulsare ed espandersi. Le pietre sono diverse, ma Pirani le vede spesso attraverso consistenze e trasparenze marmoree.
Non so se le metafore romane dei marmi abbiano ispirato Federico Pirani, ma è come se lo avessero fatto. Alcune immagini erano prevedibili e banali: suggestione prodotta da una statua di marmo che sembra respirare, irrigidimento di un corpo, lucentezza e levigatezza marmorea del viso, del collo, del seno, delle mani e dei piedi di una bella fanciulla, tornitura lapidea dei muscoli di un guerriero, biancori di latte e di neve, stillature sanguigne. Ma quando uno scrittore antico evoca le «tenere erbe» del porfido verde di Grecia e un altro inventa un gioco di rinvii tra una roccia di porfido rosso, il rosso mare antistante che le fa da specchio e una stoffa purpurea, capiamo subito che l'argomento poteva anche suggerire esiti imprevisti e originali.
Tra le tante metafore antiche, nessuna è più stupefacente di quella che rende solidali il mare e il marmo. All'associazione delle parole latine mare e marmor corrispondevano la sintonia dei colori e la somiglianza delle trame.
Tutto comincia per noi con uno straordinario frammento di Ennio, che si riferisce a una battaglia navale combattuta nel Mediterraneo orientale: «Subito solcano placidamente il marmo biondo (flavus), spumeggiano i cerulei flutti battuti dalla flotta numerosa». Il rapporto tra il mare e il marmo deve aver sconcertato un bravo commentatore moderno di Ennio: non è chiaro, egli dice, se i poeti latini pensassero veramente alla pietra, quando dicevano che il mare era di marmo o marmoreo, o più semplicemente a un effetto biancastro. Ma perché mai non avrebbero dovuto pensare al marmo, i poeti latini, quando dicevano che il mare era di marmo? Non pensavano forse al metallo quando celebravano le chiome d'oro della loro amata?
Il problema di quei versi era semmai un altro: come fa il mare a essere ceruleo e al tempo stesso flavo? Gli antichi, come i moderni, tendevano solitamente a intendere flavo come «biondo». Per questo avevano anch'essi qualche difficoltà a capire i versi di Ennio. La soluzione si trova in un dialogo immaginario tra due raffinati e pedanti eruditi di età imperiale, che dedicarono qualche ora del loro ozio a disquisire di colori e di parole, cimentandosi nell'arduo (spesso disperato) tentativo di far corrispondere l'inafferrabile mutevolezza dei cromatismi alla vocazione classificatoria del lessico. Le parole rincorrevano i colori ma erano sempre troppo poche. Tipico, ammisero i due, era appunto il caso di «flavo», una miscela di verde, rosso e bianco, in grado di assumere qualità diverse a seconda delle dominanze e dei riflessi. Per questo Virgilio poteva definire flave non solo le chiome di una donna che noi diremmo bionda ma anche le fronde argentate degli ulivi. Per questo il mare di Ennio poteva essere al tempo stesso ceruleo e di marmo flavo. Chi negli acquerelli di Pirani volesse trovare conferma delle inquietanti possibilità di «flavo» e dei suoi rapporti con «ceruleo», può soffermarsi, per esempio, sulla veduta del teatro di Petra, o su quella dell'Adrianeo di Piazza di Pietra.
Ma non era soltanto per quel biancore argenteo che i romani parlavano del mare come di un «marmo liquido». Mari blu, verdi, grigi o color del vino potevano richiamare lastre di cipollino, di bardiglio grigio o di porfido rosso. E poi c'erano le velature, i filamenti, i grumi che ricordavano le spume delle onde, le bave delle risacche, le graffiature delle correnti. La selezione e l'accostamento delle lastre potenziava l'immagine di un mare aperto: si diceva che a Costantinopoli il pavimento di Santa Sofia, con le sue lastre di proconnesio bianco solcate da grandi vene e da onde nerastre, desse addirittura l'impressione di un mare in tempesta.
Tocca il sublime il solito Virgilio quando gioca con la metafora evocando lo scenario pietrificato di un mare in bonaccia: «I venti posarono e ad un tratto ogni alito cadde, e i remi si affaticavano nel lento marmo delle acque». Quanti di noi, presi dalla vertigine di una lastra di marmo simile al mare, hanno avuto l'impressione che la pietra fosse materia viva e che lentamente si muovesse?
Ovidio fa un altro passo e parla di navi che il freddo «blocca nel marmo». E in un gelido inverno di molti secoli dopo il triste imperatore Giuliano ebbe impressione che la corrente della Senna ghiacciata trasportasse grandi lastre galleggianti di pavonazzetto frigio.
I romani potevano dunque parlare di «onde di marmo» e addirittura sostituire una parola all'altra, come fa Virgilio quando parla dei remi «immersi nell'infido marmo». Che il marmo possa essere infido come il mare non sorprende, perché tali sono tutte le materie che hanno una vita pulsante e sommersa. Le spirali di alcuni marmi davano l'impressione che nella pietra abitassero serpenti, e la straordinaria somiglianza con la pelle dei serpenti suggerí di chiamare «serpentine» alcune pietre.
La magia del marmo, che avrà grande successo anche nella cultura esoterica moderna, dipendeva da questa vitalità arcana: anche se avulso e tagliato, anche se ridotto in lastre e in scaglie geometriche, il marmo conservava con la natura un contatto fluido e venoso. Osservò infatti un autore antico che il marmo liquido delle colonne dava l'impressione di scorrere verso il basso e d'irradiarsi nel terreno per tornare alle correnti sotterranee da cui era nato.
La policromia e la screziatura erano inoltre caratteristiche insidiose, tipiche degli animali astuti che prendevano il colore delle pietre e delle piante. Il marmo era una pietra camaleontica che custodiva in sé infiniti sigilli di cose, piante e animali: non i banali fossili, che erano morti per sempre, ma quelli vivi che s'intravedevano nella sua materia irrorata. Negli acquerelli di Pirani questo inquietante rapporto tra pietra e vita diventa quasi un simbolo totalizzante del nostro rapporto con il passato romano: la materia di pietra deborda dal limite fisico dei monumenti, delle architetture, degli spazi costruiti e afferra la natura e il cielo: sembrano paesaggi affioranti da un'unica lastra antica gli alberi e le nuvole che fanno da sfondo all'arco di Tito, e la tomba di Cecilia Metella è quasi una fortezza battuta da grandi onde di liquido marmo.
Andrea Giardina
Inaugurazione della mostra “Pietre d'acqua” di Federico Pirani il 23 Novembre a Roma
Isabella Mastropasqua, Ninfa Buccellato (a cura di)
Prefazione di: Grazia Mannozzi
Con il contributo di: Raffaele Bracalenti, Marco Burgalassi, Agata Ciavola
€ 15,00
Annamaria Barbato Ricci
Con un’introduzione di:Vittorio Sgarbi
€ 60,00
Annamaria Barbato Ricci
Con un’introduzione di:Vittorio Sgarbi
€ 60,00
Marina Mattei (a cura di)
€ 40,00
Giorgio Di Genova
€ 32,00
Mariagrazia Dardanelli, Daniela De Angelis (a cura di)
€ 28,00
Carmelo Cipriani (a cura di)
€ 28,00
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