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Come strano, e vagamente rigenerante in tempi di postpostmodernità e chissà cos'altro ancora, sentir parlare, o sussurrare, della flemma di una clessidra, di eleganza del tempo, di misteriosi scricchiolii notturni non addebitabili ai tarli, che congiungono i secoli. Il piglio, il graffio disintegrato e malandrino sembrano quelli di un Cèline o un Quenau, riemersi dal vorticoso mare della modernità a legittimare un'annessione in più alla loro cultura. Perché Ghirardi e questo va ribadito con forza è innanzitutto un déraciné. Pochi oltre lui in Italia possono testimoniare un'operosità scritturale pari alla tensione necessaria a sopportare l'amaro ma anche esistenzialmente liberatorio fardello del proprio sradicamento. Da noi pochissimi oggi meditano, patiscono e speriscono forse, quanto Ghirardi, la magia delle risorse del linguaggio, un'idea di lingua letteraria come cortocircuito esplorativo della parola, del semovente
spazio tra scrittore e lettore, tra materia e pensiero... [dalla prefazione di Renato Minore]
Teatrino tascabile
Ghirardi, questo veneziano eterodosso, provvisto di notevolissima raffinata coscienza europea, fa della propria innata vocazione teatrale e lagunare una sorta di specchio su cui iscrivere immagini e idee... L'autore è insieme onnipresente e sfuggente... Eppure deve esserci una via, un punto di fuga per non essere depistati e infatti la pista c'è ed è nuovissima. Se spazio e tempo costituivano i due poli narrativi in cui l'autore dissimulava se stesso per dar corpo e voce alla sua precedente Panchina dei poeti, qui si tratta di avanzare tranquilli e fiduciosi sullo stesso strato sonoro del linguaggio, abbagliante quanto quello di un paesaggio lagunare, per cercare di decifrare, apprendere, possibilmente custodire per sempre nel cuore, i timidi, residuali, frantumati e disseminati cenni della voce che c'è sotto. [dalla prefazione di Renato Minore]
Un cumulo di bugie
La sincerità letteraria spesso è una maschera. Come l'umiltà. Che avrebbe detto Manganelli, menzognero manipolatore di tante splendide rapinose verità, di questo inafferrabile erede? Con la sua metaforica prosa fitta, policroma, intarsiata (quasi un territorio minato), Ghirardi è capace di provocare un personalissimo capogiro letterario, a base di riferimenti filosofici e dotti, ricordi di giovinezza e anche slanci espressivi di un linguaggio parlato, rivelatori di come l'uso del linguaggio potrebbe essere infinito come è infinito l'abisso. E, tutto sommato, l'autore si dimostra padrone di questo abisso. Giovane o anziano che sia, l'autore è lungi da una resa a consolidate classificazioni critiche. La forza della grande tradizione in lui si fonde, totalmente e continuamente, con uno sperimentalismo che può far impallidire anche il più cocciuto avanguardista-provocatore-progressista nemico di ogni memoria. L'arma di Ghirardi è il ricordo mai imbevuto di malinconica nostalgia o commosso rimpianto. L'autore lo scaglia prepotentemente davanti a se appunto come un'arma, un'accetta con cui affilare il velo tra il presente e il futuro, in barba a tutti i romanticismi e crepuscolarismi... Ghirardi, e lo diciamo con rispetto e affetto, è deliziosamente perfido. Più lo leggiamo, e tentiamo di orientarci nel suo percorso, più ci sembra di capire che lui sorride smaliziato da qualche parte, con indubbia autosufficienza dovuta alla consapevolezza del mandato poetico e segreto che lo investe. [dalla prefazione di Renato Minore]
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